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Cilento e aeroporto :i taglianastri della politica ampollosa

Durante la stagione estiva di una dozzina d’anni fa, l’allora sindaco di Sapri, Giuseppe Del Medico, invita in città il presidente della Commissione anticamorra della Regione Campania e consigliere Pd, Gianfranco Valiante.

Nel corso di un’informale conferenza stampa sulla terrazza dell’accorsato lido Lazzarella, diretto dall’imprenditrice italo-americana Lucia Pepice, si parla tra l’altro dello scalo aeroportuale a sud della provincia di Salerno.

Ubicato nel comune di Bellizzi, da subito la politica speciosa, la stampa incolta, l’idioma corrente, lo etichettano “Aeroporto di Pontecagnano”, pensando forse di conferire maggiore prestigio al capoluogo picentino, o probabilmente ignari dell’importanza già acquisita in ambito nazionale grazie alle ricchezze nel perimetro comunale del suo inestimabile patrimonio. 

Dal celebre museo archeologico, alla necropoli, passando dalla prelibata nocciola al castagno secolare, ancora, vino, olio e mela annurca, dalle grandi proprietà benefiche, tra cui spiccano quelle antiossidanti, diuretiche, la capacità di rinforzare i capelli e abbassare il livello di colesterolo cattivo. 

Nella sonnacchiosa conferenza stampa, ancorché svolta a mezzogiorno, per rompere il ritornello di domande del compare (nel giornalismo il rituale acquiescente e molto in voga dei reggimicrofono), cerco -tra l’imbarazzo degli astanti- di rendere un po’ frizzante il confronto, invitando il consigliere regionale del Partito democratico a riflettere sulla genesi dell’aeroporto e la denominazione Salerno Costa d’Amalfi, riduttiva, di infimo provincialismo e fuori luogo.

Rimarco il concetto, prendendo a comparazione i grandi aeroporti del Nord: Linate (e non Peschiera Borromeo), Malpensa (e non Somma Lombardo e Ferno), Verona Villafranca, Orio al Serio -giammai Bergamo- Ronchi dei Legionari e non Gorizia, Trieste o Friuli Venezia Giulia. 

Sottolineo, pertanto, che il nome più idoneo è Salerno Cilento Lucania.

Ora scopro che la politicapoliticante, seppure dopo 3 lustri di arlecchinate, ha battezzato finalmente lo scalo anche con l’integrazione Cilento. 

Un colpevole ritardo -simile alla toppa peggio dello strappo- celebrato nel corso di una patetica inaugurazione, con tanto di torta, invitati in doppiopetto, starlet, colletti bianchi, cotillons e l’onnipresente dalla Prima Repubblica, Carlo Borgomeo, presidente Gesac, la società che gestisce anche Capodichino.

Circostanza in cui hanno scoperto le ineguagliabili bellezze nella patria della filosofia eleatica, anche i due egregi sottosegretari alle Infrastrutture e Trasporti, Tullio Ferrante e Antonio Iannone -che per non smentirsi e contraddirsi presenziano agli stessi eventi: una coppia inscindibile come Totò e Peppino, Cochi e Renato, Lopez e Solenghi, Franco & Ciccio, Panatta e Bertolucci- che sovente ripete a memoria la stessa cantilena.

Ma se il primo nato a San Giorgio a Cremano e neofita della politica è palesemente giustificato -ma non assolto- nell’aver recentemente scoperto il Cilento meritevole di “decreto di nomina” come comprensorio di chiaro interesse culturale, ambientale, storico, archeologico, paesaggistico e della dieta mediterranea (che qualche sepolcro imbiancato a intermittenza cerca di impiantare altrove, in perfetto stile e locuzione “aeroporto Pontecagnano”), risulta di una gravità inaudita -perché a 4 mesi dalle elezioni regionali, <<Pensare a male è peccato, ma spesso si indovina>>, diceva Pio XI- che il fratellino d’Italia Tonino, sia stato folgorato solo ora, anno di grazia 2025, dalla straordinaria importanza del comprensorio cilentano.

Terra di Parmenide e Zenone, nati ad Elea, centro strategico della Magna Grecia, Velia in epoca romana, l’attuale Ascea, con la Porta Rosa, un unicum nel suo genere.

Ma dal 22 ottobre 2012 al 12 ottobre 2014, Tonino il fratellino da presidente della Provincia di Salerno, oltre ad ignorare sempre il Cilento, non ha mai pensato di proiettare il suo sguardo al di là del fiume Irno e avere la curiosità di conoscere e dunque governare la provincia più grande d’Italia?

Un’ennesima conferma di quanto fosse importante e lungimirante la strategia del sano visionario Raffaele de Dominicis, già procuratore della Corte dei Conti, che nel 2006 diede vita all’ambiziosa e mai sopita Grande Lucania.

Un progetto di riappropriazione delle proprie origini attraverso cui auspicava il distacco dalla matrigna Campania e l’aggregazione alla Basilicata.

Ma proprio l’enfasi dei taglianastri delle cerimonie -come molti cantori oggi sul proscenio- complici i luogotenenti locali, bollarono quel disegno di civiltà.  

Gli amministratori non adottarono mai, fatte salve coraggiose eccezioni, provvedimenti di chiaro indirizzo progressista, opponendo diniego all’emanazione di delibere consiliari. 

Mai accendendo il disco verde del referendum, unico e inalienabile strumento di democrazia diretta nelle mani del popolo sovrano,  obliterarono scelte, autonomia e indipendenza, provocando di fatto un autentico vulnus e strozzando il protagonismo del cittadino elettore.

Quella gente alla quale l’usurpatore Giuseppe Bonaparte nel 1806, con un tratto di penna d’oca, tagliò radici, espropriando eredità morali e spezzando in un sol colpo, amori, sentimenti, emozioni.

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